The Switch F.C.
Il calcio è l’argomento da pausa caffè per eccellenza e, in questo, i nostri uffici non fanno eccezione. Ma per deformazione professionale in CBA, quando parliamo di pallone, lasciamo da parte rigori, derby e classifiche per applicare il filtro del branding.
È qualcosa che ci viene spontaneo ma anche necessario, soprattutto ora che il cambiamento sta investendo questo sport con una velocità inedita.
Tra la corsa ai rebranding degli ultimi dieci anni, l’ossessione per la tipografia proprietaria e le migliaia di maglie rilasciate ogni stagione (diventate spesso oggetti di culto fashion), il calcio sta cambiando pelle.
Per analizzare questo fenomeno, il nostro personale CBAr Sport schiera oggi una formazione a tre punte:
Davide - Senior Designer e tifoso della Sampdoria: una combinazione letale che educa all’amore per la forma e alla gestione del dolore
Fabio - Strategist & Copywriter di spinta, football nerd attento a narrazioni e cambiamenti
Roberto - Research and Brand Strategist e calciofilo militante, con più di 190 presenze allo stadio certificate da Transfermarkt
È il fronte più caldo del cambiamento, dove la tradizione calcistica si scontra con le necessità del design digitale. Da un lato lo stemma come totem sacro e immutabile, dall’altro il logo come asset flessibile.
Quand’è che abbiamo smesso di disegnare crest per iniziare a progettare brand globali? E soprattutto, a forza di semplificare non staremo togliendo troppo?
Davide: Ormai la semplificazione è la risposta ufficiale a tutto. Gli stemmi delle squadre devono funzionare meglio sui social, sugli schermi, nei videogiochi, nelle app. Una forma più pulita, un sistema più scalabile, un’identità più digitale.
Una spiegazione convincente che, secondo me, non regge fino in fondo. La storia degli stemmi nel calcio non è una marcia verso la semplificazione, ma un continuo avanti e indietro. Abbiamo avuto periodi araldici, periodi illustrativi, periodi sintetici, poi di nuovo ricchi, poi di nuovo ridotti.
E allora la vera domanda per me è un’altra: perché adesso ogni cambiamento genera così tanta frizione?
Il caso dell’Atlético Madrid lo mostra in modo chiarissimo. Lo stemma recente era costruito bene: più leggibile, più coerente, più equilibrato. Eppure è stato rigettato malamente, con una forza tale da farli tornare allo stemma precedente, ricco di dettagli complicati e proporzioni particolari.
Un segnale inequivocabile: un disegno può anche essere migliorabile, ma la percezione di identità è un nervo scoperto. Se lo tocchi, scatta la difesa e questa dinamica continua a ripetersi.
Fabio: La verità, per me, è che non si può affrontare il branding legato al calcio usando solo gli strumenti e l’esperienza del branding tradizionale, per almeno due fattori. Uno è quello che ricordavi, cioè la presenza dei tifosi, categoria di stakeholder unica al mondo, in qualche modo custode dell’identità più profonda delle squadre. Ma ce n’è anche un altro: la gran parte dei club nasce in un periodo compreso fra 90 e 130 anni fa, senza essere stato pensato come brand.
I padri fondatori erano appassionati inglesi emigrati all’estero, dopolavoristi ferroviari del Lancashire o intraprendenti uomini d’affari svizzeri in trasferta in Catalogna: lo scopo era unicamente quello di praticare il gioco. Le identità di queste squadre nascono dunque da zero, ma con un pensiero che definirei poco strutturato rispetto a un marchio commerciale della stessa epoca.
Quindi, quando si arriva agli ultimi 25 anni del Novecento e le potenzialità commerciali e comunicative del calcio sono state ormai comprese (e in gran parte sono diventate anche necessarie) i club sono di fatto già dei brand ma le loro identità si sono strutturate e consolidate in modo spontaneo, influenzate da fattori sociologici, geografici, politici e in gran parte anche dai risultati sportivi. E - soprattutto - hanno dalle centinaia di migliaia ai milioni di tifosi, ormai attaccati visceralmente a colori e identity.
Metterci mano è un lavoro enorme di taglia e cuci. Non è semplice e non c’è una risposta univoca.
Davide: Vero, ci sono innumerevoli approcci. L’Ajax di recente ha scelto una nuova identità visiva contemporanea, bellissima, piena di ritmo e personalità, ma costruita attorno allo stemma del 1928, ripristinato su richiesta della tifoseria.
La Roma ha fatto un’altra scelta. Il ritorno del vecchio acronimo ASR, una nuova lupa iper dettagliata, il Lupetto di Gratton: una sorta di identità stratificata, dove i simboli storici convivono invece di sostituirsi.
La Juventus nel 2017 ha preso la strada opposta e ha segnato uno spartiacque: lo stemma ridotto a una lettera. Una mossa audace, da brand globale, che ha aperto una nuova era estetica ma - a distanza di anni - continua a dividere. Per molti è brillante, per altri è un segno che non restituisce abbastanza l’essenza della Vecchia Signora.
L’Inter, invece, ha lavorato in modo diverso: pulizia del segno, racconto tipografico forte, forma alleggerita. Un progetto elegante, che per alcuni è un passo verso un immaginario più fashion che calcistico.
A questo punto è chiaro: aggiornare uno stemma calcistico è un dialogo con una memoria collettiva, che vive fuori dai brand book, che non appartiene alla società, ma alla sua comunità.
Il confine tra design e identità è sottilissimo e, nello sport più che altrove, l’identità non si progetta davvero, si deve custodire.
Robi: Siamo nell’era digitale quello della semplificazione è un trend a cui il calcio ovviamente non poteva sfuggire.
Avete già detto voi che negli ultimi anni diversi stemmi sono stati modificati a favore di versioni più semplici e più snelle. Pur essendo consapevole che un designer può apprezzare davvero questi cambiamenti moderni, io sia da tifoso che da strategist, non riesco a non notare come queste semplificazioni portino troppo spesso con loro rinunce a elementi identitari che appartengono a storie centenarie.
La Juventus con il suo nuovo logo ha rimosso il legame, fortissimo anche grazie alla sua proprietà, con la città di Torino. Ma anche l’Inter, ha rinunciato a una dicitura, “Football Club”, che era sempre stata presente sin dalla fondazione.
Per questo io apprezzo chi, invece di stravolgere il proprio stemma salvo dover poi tornare sui propri passi ha preferito prendere piccoli accorgimenti per favorire l’adattabilità dei loghi.
Napoli e Milan hanno seguito strade diverse dalle altre italiane - nel caso dei rossoneri soprattutto perché presentano uno stemma anche graficamente complesso - ma nel complesso riescono ad avere un’identità solida e riconoscibile, anche se hanno agito in controtendenza rispetto a Juve o Inter.
Fabio: Concordo. Io credo che, nel calcio, la cosa più giusta sia ragionare sempre in termini di Brand System, qualcosa - per rifarmi agli esempi di Davide - più vicino alle strade disegnate da Roma o Ajax.
Mi capita parlarne ormai da anni, prima in lunghe chiacchierate informali con amici che lavorano nel settore, poi in podcast, lezioni o piccoli panel a cui ho avuto la fortuna di partecipare: lo switch può essere raccogliere e razionalizzare tutto il patrimonio identitario e visivo di una squadra, ragionare su radici storiche, racconto di marca e specifiche esigenze, andando poi a sintetizzare un vero e proprio sistema con le sue regole applicative.
Non c’è necessità di stravolgere i crest che vengono utilizzati sulla maglia, che possono benissimo vivere accanto a loghi pensati per il mondo digitale o a pattern disegnati per il merch. Non è nemmeno obbligatorio avere un’abbondanza di segni visivi diversi (pensiamo al Napoli), l’unica necessità è approdare a un sistema razionale, versatile e coerente.
Se lo stemma è il volto di un club, la tipografia è la sua voce. Le leghe spingono verso font unificati per creare un prodotto coerente e pulito, i singoli club cercano sempre di più caratteri custom per urlare la propria unicità, in campo e sui social.
Meglio l’ordine visivo, che rassicura, o un po’ di caos creativo che distingua?
Davide: Oggi si parla molto di tipografia nel calcio, ma è interessante ricordare che fino a pochi anni fa non se la filava praticamente nessuno. Non era un simbolo, non aveva una tradizione, era solo numeri, lettering, funzione.
Poi, lentamente, è successo qualcosa. Quando anche il branding è entrato con forza nel calcio, la tipografia è diventata una leva potente per costruire immaginari. Così le squadre hanno iniziato a creare i loro caratteri proprietari un po’ in tutto il mondo.
La tipografia è passata da essere dettaglio invisibile a essere linguaggio. Ma proprio ora che finalmente diventa un asset narrativo, qualcuno decide che deve essere uguale per tutti. La Premier League ha un font unico da fine anni Novanta, è stata pioniera in questo senso, ma poi l’hanno seguita tutti: Ligue 1, La Liga, fino alla Serie A, che ha introdotto il suo font nel 2020.
Si dice sia per leggibilità e chiarezza e - per carità - funziona. Ma quando tutto è leggibile allo stesso modo, tutto si somiglia un po’ di più. Certo, a differenza degli stemmi, i font non scatenano rivolte.
Ma ho la sensazione che la tipografia stia diventando così centrale nei linguaggi visivi dei club che presto potrebbe generare un coinvolgimento ben diverso. Lo stemma è memoria, ma la tipografia è tono. E nel calcio, il tono diventa racconto.
Fabio: Sono d’accordo che non ci sia (ancora) una cultura tipografica nel calcio, questo tema era una cosa da nerd. E questo ci svela una realtà per tanti versi sorprendente: senza volerlo, i font per decenni hanno “lavorato” essenzialmente per il brand calcio nel suo complesso. Tutti sanno riconoscere gli stili delle numerazioni e del lettering d’epoca che - infatti - sono fra i primi elementi ad essere utilizzati nelle moderne contaminazioni fra calcio, moda e street culture.
Bisogna ammettere che le prime a capire la forza della tipografia come strumento di branding sono state le case produttrici di materiale tecnico, che hanno visto nei font personalizzati (spesso con stili richiamanti l’identità visiva del brand o addirittura con loghi o logotipi al loro interno) un ulteriore strumento di visibilità e posizionamento, seguite da metà anni ‘90 in poi dalla Premier League e poi via via dagli altri campionati.
I club, dunque, sono arrivati ultimi con ampio distacco all’uso di questo strumento di branding, mettendo in luce una delle più grandi difficoltà nel fare branding calcistico: i player che vogliono affermare e consolidare la propria identità sono tanti (i club, le federazioni, le leghe nazionali, i brand sportivi, gli sponsor, i calciatori stessi) ma gli strumenti, alla fine, non sono illimitati e sono gli stessi per tutti.
È una tensione per nulla positiva, destinata a un certo punto a incontrare un punto di rottura.
Personalmente sarei per tornare a dare massima libertà, a mio parere 30 anni di esperienza ci hanno mostrato che i font unici tolgono una parte troppo grande di identity alle squadre e depotenziano l’impatto della creatività di maglie e abbigliamento tecnico.
Robi: Quello dei font è un tema che riesce a sembrare vecchio e nuovo allo stesso tempo: l’importanza ha raggiunto l’apice negli anni ‘90, quando si è iniziato a mettere i nomi sulle magliette in contemporanea all’avvento di internet e quindi alle prime forme di comunicazione digitale.
Alcuni di questi font, grazie alla loro originalità e unicità sono diventati iconici: penso al Real Madrid dei primi anni 2000 e ai suoi caratteri stencil, ma anche ad altri esempi più vicini a noi come i font in rilievo della Lazio del 2015.
Ma l’omologazione dei font annulla questa possibilità di comunicare e sperimentare. Sono decisioni prese dall’alto, che trovo in controtendenza con il mondo attuale, perché oggi vogliamo prodotti sempre più personalizzati, che possiamo sentire più nostri.
Leghe e federazioni calcistiche utilizzano queste leve di branding per espandere la propria popolarità ed essere più riconoscibili e popolari nel mondo, anche in mercati “nuovi” come quello asiatico e quello australiano. La Premier League è stata la prima a intraprendere questa strada, dotandosi di un logo iconico già dal 1992 (nel 2007 e nel 2016 i due rebrand) e di simboli unici che sembrano piccoli dettagli, ma in definitiva hanno contribuito a farne il principale campionato del mondo: le grafiche dei risultati in tv, il visual dei tunnel degli spogliatoi e dei palloni.
La Serie A insegue questo modello e l’adozione di una numerazione unica per tutte le squadre lasciava intendere che fosse in corso la costruzione di un brand solido e attraente, con un nuovo logo, nuove grafiche televisive e idee al confine fra il disruptive e lo strambo, tipo giocare partite di campionato in Australia per “diffondere il marchio” (cit). In questo senso l’imposizione del font unico non è altro che una leva che la Federazione usa per il suo brand, anche se questo comporta la cancellazione di una parte dell’identità delle singole squadre.
Fabio: Secondo me qui hai centrato il punto. Ma senza una visione e senza una strategia coerente, hai voglia a cambiare font, loghi e naming ogni 2-3 anni. La Serie A da questo punto di vista sta mostrando di avere ancora tanta strada da fare per cui, a questo punto, poteva lasciarci anche la libertà di font!
La maglia ha smesso da tempo di essere solo divisa da gioco: è uscita dagli stadi per invadere prima le strade, poi le passerelle della moda e i feed social delle celebrità. La ‘sacra maglia’ è diventata un canvas culturale in cui tutto sembra permesso.
Davide: Per un designer, la maglia è il territorio più affascinante ma anche il più pericoloso, è un campo minato. Certo, l’attesa del drop annuale e i leak sui social sono diventati un rito collettivo, la sperimentazione sembra naturale, ma c’è un limite invalicabile: quello che separa l’innovazione dall’eresia.
La maglia non è solo capo tecnico, è un oggetto sentimentale. Io tifo Sampdoria e quella maglia per me è sacra. Così unica, così armonica, che qualsiasi deviazione la vivrei come una ferita. Da designer posso analizzare proporzioni e costruzioni, da tifoso blucerchiato so che alla prima modifica drastica perderei ogni lucidità.
Questo è il paradosso che non dobbiamo dimenticare: noi progettiamo forme, ma le persone indossano emozioni. E l’emozione, quasi sempre, è conservatrice.
Fabio: Il problema è che questa emozione è stata messa a budget. La maglia nasce per distinguere le due squadre in campo, poi diventa identità (i Bianconeri, i Reds, i Blancos) e solo negli anni ‘70 diventa “replica” per i tifosi. Un’intuizione dei grandi brand sportivi British (Admiral, Umbro), uno switch storico, ma comunque ancora fin lì sistema reggeva: era un asset commerciale, che rispettava l’identità.
Oggi il banco è saltato. I grandi club lanciano 3 o 4 kit a stagione: Home, Away, Third, Fourth, edizioni speciali, retro-collection; i medio-piccoli gli vanno dietro, senza criterio, in una sorta di fast-fashionizzazione del calcio, terribile.
Questa iper-produzione annacqua il brand: la maglia diventa un oggetto usa e getta, un souvenir stagionale scollegato dalla storia. Se ogni anno cambio tutto per inseguire un ricavo sul bilancio o un trend estetico che non mi appartiene, cosa sto vendendo davvero? Un pezzo del club o solo poliestere costoso?
Roberto: Siete vecchi, ragazzi. State guardando il fenomeno con gli occhi di chi va in curva o colleziona, ma il calcio ha sfondato quelle mura. Da tifoso interista capisco la nostalgia per la maglia a strisce verticali nerazzurre che sta nelle foto di mio nonno Franco che abbiamo a casa, ma da analista devo guardare i dati: la maglia oggi è un item culturale, non più solo sportivo. È il trionfo del Blokecore.
I brand hanno capito ben prima dei club che la maglia si può indossare a una sfilata, a un aperitivo o in un video musicale. Le collaborazioni tra Napoli e Marcelo Burlon, o Milan e Off-White, o il Venezia che sembra più un brand di streetwear che una squadra di Serie B, non sono anomalie: sono l’adattamento del calcio al linguaggio del lifestyle globale.
Non ci sorprendiamo più se un rapper americano indossa una maglia di Serie A. È la prova che il brand calcistico ha finalmente superato il calcio giocato.
Fabio: È vero Robi. Ma il rischio è calcolato? È palese che molte di queste maglie moderne siano disegnate per stare più Instagram che sul campo (dove magari risultano illeggibili o cromaticamente assurde).
Alla lunga, questo scollamento si paga. Se trasformiamo le squadre in fashion brand, rischiamo di creare prodotti bellissimi ma senz’anima. E quando la moda Blokecore passerà – perché passerà – cosa resterà in mano ai brand produttori e alle squadre? Ne sarà valsa davvero la pena?








